La cronaca degli ultimi giorni si è riempita di un caso che ha colpito tutta la popolazione, soprattutto quella LGBT+. Tutti i giornali ovviamente hanno riportato grandi titoli in merito e si è riaperto, tra le altre cose, la questione linguistica su come riferirsi alle persone trans.
Nel riportare la notizia infatti, molti giornali e tv hanno preso parti diverse. I protagonisti sono una giovane ragazza e un/una trans. C’è quindi chi parla di ‘due ragazze’ e chi invece si riferisce al maschile, del resto è lui stesso a parlare di sè la maschile. Ma cerchiamo di fare un pò di chiarezza…
Come abbiamo già visto in precedenti pubblicazioni, la comunità LGBT+, e la sua sigla, sono sempre in evoluzione e più inclusive. Qui troviamo la T di Transgender, ossia la persona che ha un‘identità di genere o un’espressione di genere diversa dal sesso biologico/genetico.
Sono però tanti altri i termini da tenere in considerazione, legati a questa lettera T.
Per chiarire proprio questo, vi riportiamo un articolo de Il Post di pochi giorni fa.
Le parole
Nel sistema classificatorio oggi più utilizzato dagli “esperti”, l’identità sessuale viene comunemente definita in base a tre parametri: sesso, genere e orientamento sessuale.
Stando a questo sistema, il sesso corrisponde al corpo sessuato, all’anatomia: ha una dimensione fisica. Essere maschi significa avere nella propria dotazione genetica un cromosoma X e uno Y, avere pene e testicoli e una certa produzione ormonale. Essere femmine significa invece avere due cromosomi X, vagina, ovaie, seni e una certa produzione ormonale. Esistono poi le persone intersex che talvolta gli “esperti” dimenticano, in cui i differenti fattori che determinano il sesso divergono dagli standard del maschile e del femminile, o si sommano in modo divergente da tali standard.
Il genere è insieme una dimensione psicologica e culturale. Ha a che fare con il sentimento di appartenenza e con l’identificazione al modello culturale di mascolinità e femminilità che agisce nella propria società di appartenenza. Non basta essere maschi per essere uomini, e non basta essere femmine per essere donne. Inoltre, da sempre non solo da oggi, le diverse culture hanno elaborato generi intermedi, o altri, dal maschile e dal femminile.
L’orientamento sessuale è invece la direzione prevalente dei propri desideri: per il sistema classificatorio vigente è eterosessuale chi desidera persone di sesso/genere opposto al proprio, è omosessuale chi desidera persone del proprio stesso sesso/genere. Ma esistono anche persone bisessuali, pansessuali, asessuali…
In senso stretto si definiscono transgender, o transgenere, le persone che si identificano con il genere opposto al loro sesso, ma che non vogliono sottoporsi all’operazione chirurgica per la riassegnazione del sesso. Le persone transessuali sono invece quelle che desiderano modificare anche i propri genitali per diventare il più possibile simili al “sesso” di elezione. Oppure “transgender” può essere utilizzato in un senso più ampio che contiene al suo interno sia il concetto di transessuale sia quello di transgender in senso stretto.
Lorenzo Bernini, direttore del Centro di ricerca PoliTeSse dell’Università di Verona, uno dei pochi espressamente dedicati agli Studi di genere e femministi e alle teorie queer in Italia, nel glossario al termine del libro “Differenza e relazione” (2009) spiegava che «si può essere transgender ad esempio vestendo i panni del genere desiderato, scegliendo per sé un nome proprio del genere desiderato, assumendo eventualmente ormoni e modificando alcuni tratti del proprio corpo, ma senza intervenire chirurgicamente sui propri genitali».
Oggi aggiunge che quella delle soggettività transgender è un’ampia galassia, «che si è arricchita di soggettività gender fluid, gender questioning, agender, in cui il binarismo sessuale viene messo in discussione in modi differenti». E precisa che, nell’uso più corrente, sesso-genere-orientamento sessuale sono criteri che impongono alla sessualità una divisione netta a due termini. Si basano cioè sulle contrapposizioni maschio-femmina, donna-uomo, eterosessuale-omosessuale, contrapposizioni che producono degli ideal-tipi (“l’Uomo”, “la Donna”, ma anche “l’Eterosessuale”, “l’Omosessuale” e così via) che sono talvolta molto lontani dalle esperienze dei soggetti che dovrebbe descrivere.
Combinando tra loro i concetti del binarismo sessuale si possono comunque comporre diverse identità: uomini eterossesuali, gay, bisessuali; donne eterosessuali, lesbiche, bisessuali; donne e uomini transessuali che possono avere diversi orientamenti ed essere eterosessuali, omosessuali, lesbiche o bisessuali; persone transgender che possono a loro volta desiderare uomini, donne, o altre persone transgender. Ma bisogna sempre tenere presente che tale sistema, con le combinazioni che ne conseguono, è sì utile per iniziare a comprendere la complessità delle identificazioni e dei desideri sessuali, ma è anche una griglia interpretativa e imperfetta della realtà, basata su rigide alternative: la realtà stessa è ben più complessa e ricca di esperienze in cui i tre parametri non sono necessariamente “coerenti” tra loro. Non solo.
Oltre le parole
Il sistema sesso-genere-orientamento sessuale viene usato in tutto il mondo dalla maggior parte degli psichiatri, degli psicologi e dei sessuologi, ma anche dai sistemi giuridici, per definire e classificare le identità sessuali: per definire la “norma” sessuale, ma anche la “perversione”. «Le alternative binarie di tale sistema non si limitano a semplificare la gamma delle identità sessuali possibili, e non sono nemmeno solamente categorie descrittive: stabiliscono delle gerarchie», dice Bernini, e hanno conseguenze molto reali sulle persone. Istituiscono classificazioni riconoscendo solo ad alcune categorie di persone l’appartenenza a un’umanità “sana”, “normale”, “piena” e quindi pienamente meritevole di avere dei diritti e di essere tutelata giuridicamente.
La legge italiana, per esempio, fino a tempi molto recenti imponeva uno stretto binarismo sessuale. Il riconoscimento giuridico dell’identità di una persona transessuale doveva cioè necessariamente passare dall’intervento chirurgico, rendendo di fatto giuridicamente intrattabili i soggetti transgender. Secondo la le interpretazioni che per lungo tempo la giurisprudenza ha dato della legge 164, del 14 aprile 1982, gli interventi demolitivi dei genitali erano considerati necessari per poter ricevere l’autorizzazione a cambiare il nome sulla carta di identità.
«Fino al 2015, l’identità di genere per lo stato italiano dipendeva non dal senso di sé di un soggetto, ma esclusivamente da ciò che un soggetto aveva tra le gambe, si trattasse di un organo genitale naturale o di una sua ricostruzione artificiale. Il nostro sistema giuridico rispondeva quindi a una logica binaria molto rigida: o sei maschio e quindi devi essere uomo, o sei femmina e quindi devi essere donna. Se sei maschio ma vuoi essere donna, il nostro sistema giuridico ti concedeva di diventare legislativamente donna o uomo solo a patto che tu ti facessi demolire ed eventualmente ricostruire i genitali, anche se probabilmente questo avrebbe potuto farti rinunciare al piacere dell’orgasmo, darti forti reazioni di rigetto o ancora causarti altre complicazioni», ha spiegato Bernini.
Nel 2015, invece, due importanti sentenze della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale hanno finalmente stabilito che tali interventi non sono necessari. Negli ultimi anni sono state fatte diverse proposte di modifica della legge: lo scorso febbraio il MIT (Movimento Identità Trans) aveva proposto tra le altre cose la rettifica anagrafica sulla base della sola autocertificazione da parte della persona interessata, senza il lungo percorso psicologico e giudiziario che è invece oggi richiesto.
L’importanza dell’autodeterminazione
Oltre ai giornali e alle tv che si sono riferiti a una delle vittime di questo recente caso di cronaca al femminile riportandolo al genere che aveva deciso di abbandonare, spesso per ignoranza su moltissime di queste questioni. Lo ha fatto anche l’associazione Arcilesbica: esprimendo e argomentando una posizione politica che oggi è in contrapposizione con i movimenti femministi più attivi nel mondo.
ArciLesbica ha pubblicato un post chiedendo ai giornali che parlavano di relazione gay di correggersi: «Si dice relazione lesbica, non relazione gay». Dopo aver ricevuto numerose critiche, ArciLesbica ha chiarito che per loro «la transessualità non si autocertifica […]. Ha documenti e corpo femminili, non ha mai iniziato alcun percorso di transizione. In caso questo venga ufficialmente rettificato, provvederemo a chiamarlo col suo nome, trans FtM, da femmina a maschio». E ancora: «Fino ad allora è realmente una vittima di violenza misogina a cui è stata tolta la compagna. Facciamo le più sincere condoglianze e piangiamo un altro femminicidio».
La posizione di ArciLesbica si può dunque riassumere come segue: esistono due sessi (maschio e femmina) che dipendono da fattori anatomici e fisici, e l’inclusione nella categoria di “donna” richiesta dalle donne trans rischierebbe di danneggiare le persone biologicamente donne.
Nel movimento femminista questo tipo di dibattito esiste da decenni e ha portato alla nascita della definizione di “femminismo essenzialista e trans-escludente” (da cui la sigla TERF). Il femminismo essenzialista considera che ci sia una corrispondenza tra sesso e genere, sostenendo che altrimenti non ci sarebbe modo di definire le donne e rifiutando di fatto anche le alleanze simboliche e politiche con il movimento trans (che considera questa distinzione opprimente).
Questa posizione è stata criticata e superata dai movimenti femministi più recenti, che attribuiscono molta importanza all’autodeterminazione. Questi movimenti si definiscono alleati delle persone trans e hanno denunciato, per l’ultimo fatto di cronaca, come non rispettare l’identità sessuale sia una nuova forma di violenza. E dunque: di una donna transgender si deve parlare al femminile; così come di un uomo transgender si deve parlare al maschile.
Fonte: Il Post
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